Una delle prime fotografie era uno scatto, abbastanza prolungato, su una via cittadina da una finestra. Un’altra, invece, era una sorta di autoscatto che mostrava l’autore in posa da (finto) defunto. Sono passati quasi due secoli dall’invenzione della fotografia e dalla relativa e sempre più vasta letteratura critica, ma credo che i possibili sensi della fotografia si possano racchiudere entro queste due tipologie di sguardo. La fotografia di Francesco Filangeri sembra appartenere al primo e auratico modello originario (nel senso anche che la foto, l’eliografia del 1826, dalla finestra di Joseph Nicéphore Niépce è quasi “illeggibile”). Gran parte delle sue immagini appartengono, infatti, alle città. E le città sono al plurale giacché sono diverse e riconoscibili solo agli occhi di un ipotetico e attento viaggiatore. Il metodo, e la corrispondente posa, di Filangeri si rifanno a un altro classico modernista, e cioè alla figura del flâneur, in lungo e in largo analizzata da Walter Benjamin. Nessun interesse o “prospettiva” precostituiti guidano la scelta delle inquadrature se non una onnivora curiosità in quella (la città) che non è più da molto tempo una “foresta di simboli” ma solo di segni. Una concessione, a questa ricerca di segni, ci è offerta, invece, dalla serie dedicata agli “artigiani”. Forse, come dice l’artista stesso perché come fotografo “si sente un artigiano” (e dunque per partecipazione sentimentale) ma anche, probabilmente, perché il lavoro è ciò che anche e soprattutto oggi dovrebbe resistere alla mera riduzione a segno. (Giovanni Iovane, Archivio S.A.C.S. 2013/14)

Francesco Giuseppe Filangeri

dalla serie "Artigiani", 2007-2010