Galindo

Raíces, 2015
video a due canali / two channels
5′ 43”, 5′ 57”, ed. 1/5
inv. 143/PBR

 

 

Regina José GALINDO
nata nel 1974 a Città del Guatemala dove vive e lavora

Artista visiva e poetessa, Regina José Galindo è una delle personalità più importanti della Body Art dei nostri giorni. Il suo corpo minuto e a prima vista fragile diviene lo strumento “politico” di una pratica artistica intensa che la lega alle body artiste degli anni Sessanta e Settanta. Partendo dalla sua terra, dalla denuncia degli abusi di potere in Guatemala e nei i paesi dell’America latina, crea azioni estreme e scomode che mirano a scuotere l’ opinione pubblica schierandosi dalla parte delle vittime e mettendo in scena la dimensione soppressa e rimossa della loro sofferenza. Nel 2003 la camminata dalla Corte Costituzionale fino al Palazzo Nazionale di Guatemala City, lungo la quale lascia una scia di impronte di sangue umano, la pone alla ribalta della scena internazionale. Due anni dopo, sarà insignita del Leone d’oro nel 2005 alla Biennale di Venezia nella categoria “ young artist ”, “per aver saputo dare vita a un’azione coraggiosa contro il potere”. Nel 2015 realizza, all’Orto Botanico di Palermo, la performance Raicés incentrata sul tema dello “sradicamento” in cui coinvolge le comunità straniere della città mirando metaforicamente a riconnetterli alle proprie radici, in un’immagine corale ed en plein air, lirica e al tempo stesso concreta, che porta i performers, tra cui la stessa artista, a entrare in una dimensione di profondo ascolto della natura.
Da qui l’acquisizione, attraverso il progetto “Percorso di memoria” vincitore del PAC – Piano per l’Arte Contemporanea 2020, finanziato dal Ministero della Cultura per incrementare le collezioni pubbliche di arte contemporanea.
Il suo sguardo al sud del mondo caratterizza il video acquisito, Raíces, del 2015, a due canali, nel quale affronta la storia antica ma perennemente attuale, concentrata sul significato di sradicamento, e propone una riflessione a partire dal parallelismo tra le comunità straniere radicate in città e le piante provenienti da tutto il mondo, presenti nell’Orto Botanico di Palermo, uno dei più ricchi e grandi in Europa.
L’opera testimonia la performance strettamente connessa al territorio, con la quale l’artista guatemalteca, che nelle sue opere esplora tematiche dalle forti implicazioni etiche e sociali, ha affrontato, nel 2015, il fenomeno delle migrazioni. La performance site specific, curata da Giulia Ingarao, Paola Nicita e Diego Sileo, è stata realizzata in concomitanza al summit europeo sull’immigrazione che era stato indetto subito dopo l’ennesima strage di migranti nel Mediterraneo, al largo dell’isola di Rodi.
Il corpo nudo, immobile per ore, con le braccia penetrate nella terra, come radici, come disperati appigli alla vita, è un tutt’uno con la terra, con l’enorme pianta di ficus che lo domina, in un innesto cruento e tragico, poetico ed emozionante di uomo e natura. Una visione mitica e ferina che ha coinvolto anche diversi performers di venti diverse nazionalità. Ognuno di loro disteso tra le varie essenze dell’Orto Botanico, ognuno di loro ancorato alle radici dell’albero appartenente al proprio paese di origine, in un parallelismo che ancora una volta parla di corpo, di luogo, di umanità.
L’opera, come ha affermato l’artista, rappresenta “Una bella metafora sulla necessità di ognuno di noi di aggrapparsi ad un luogo nuovo, senza però abbandonare le proprie radici che ci accompagnano sempre, perché sono la nostra fonte di energia vitale”.

Prende parte alle più importanti manifestazioni internazionali ed i suoi lavori fanno parte dei maggiori musei del mondo, tra cui il MoMA di New York, il Centre Pompidou di Parigi, la Guggenheim Collection di New York, la Tate Modern di Londra, il Castello di Rivoli Torino, Daros Foundation (Svizzera).

Rosaria Raffaele Addamo
Tatiana Giannilivigni